(insegna davanti ad una bottega artigiana a Malta)
Ricevo e volentieri pubblico. Anche se l’argomento non è particolarmente “complottista“, credo che una delle strade da percorrere, contro questa globalizzazione selvaggia che distrugge culture, economie, la voglia di stare insieme, ecc., sia proprio quella del ritorno al locale, al quartiere, al borgo. Alla faccia di quello che ci hanno sbandierato, da decenni, essere il progresso.
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Certo che è proprio bello! Verde mela, fresco, così semplice ed elegante. E’ da più di
un mese che mi guardo l’annuncio: tavolino e sedie in vendita… Lo guardo e lo
immagino nella mia cucina, così grigia. Non in senso metaforico: è proprio grigia.
Volevo fare l’alternativa e, visto che ho il palato per lo champagne ma i soldi per la
birra, proprio non potevo permettermi altro che quel “vorrei ma non posso”, quel finto
retrò un po’ cheap che si può trovare a buon mercato nella grande distribuzione.
Vabbeh, posso confessarlo, ho una cucina Ikea.
Non che abbia nulla contro l’Ikea, in fondo “il design per tutti” è un gran motto.
Perchè bisogna essere milionari per apprezzare il design? Democratizzarlo è bello.
Però se democratico fa rima con industriale e addio all’artigianato, allora no. Non è
bello. Ho comprato la cucina Ikea perché era quella che più a buon mercato si
avvicinava alle mie fantasie, come si dice ora? Shabby chic. No perché dopo la visita
ad un centro di produzione artigianale di cucine in muratura e la relativa fuga
(eravamo già a 7.000 euro ed avevamo progettato solo un angolino: “ops, ho
lasciato la macchina in seconda fila, scusi sa, esco, vado a parcheggiare in
Papuasia e torno, mi aspetti eh?”) ho capito che il design democratico faceva per
me.
E adesso, ora che sono qui in questa triste cucina grigia arredata solo per tre quarti
per mancanza di fondi (ormai cinque anni fa), immagino quel fresco, poetico tavolino
verde mela da bistrot che mi fa sentire una bohemienne a Parigi. Telefono. In fondo
un mese di gestazione per l’idea può bastare, passo all’azione.
-“Pronto, ah si sono Lorenza, ci siamo inseguite per il mio annuncio del tavolino”
La voce è un po’ tesa, quasi in apprensione, capirò dopo che forse è solo desiderio
di venir compresi, aspettativa di riconoscimento del proprio lavoro e impegno. Non
apprensione, ma aspettativa, dovuta al mio messaggio lasciato in segreteria.
-“Si una foto è presa dal catalogo, ma poi ho messo anche le mie, è proprio il
tavolino che ho io”.
Si, perché va di moda mettere in vendita gli oggetti usati, 10 anni dopo averli
comprati, pubblicando la foto del catalogo; di come sarebbero cioè, se i nostri figli,
parenti, nipoti non ci avessero camminato, mangiato, sputacchiato magari sopra per
un decennio.
E’ talmente poetica la foto di quel tavolino, così chic nel suo contrasto col pavimento
amaranto che, dopo un’occhiata distratta, avevo sospettato si trattasse di un
catalogo di arredamento. Sospetto totalmente infondato.
“Ho altre cose in vendita, se vuole dare un’occhiata”
Vado, vedo e…piango. Si piango. Piango di commozione, per la delicatezza di
oggetti riciclati da vecchi bancali, considerati da qualcuno spazzatura e che
qualcun’altra, invece, trasforma in beni utili e pieni di poesia. Piango per la felicità di
vedere antichi manufatti in legno abbandonati, sconfitti dal laminato e dalla
formaldeide, tornare in vita; quasi come i cani e i gatti che raccolgo dalla strada, che,
amati e curati, rifioriscono. Nulla è più magico che vedere quello sguardo carico di
dolore per i traumi subiti scomparire e lasciare il posto ad un guizzo gioioso negli
occhi, che restano sempre quelli di un cucciolo pronto al gioco e ad una carezza.
Piango per la bellezza di una giovane donna che coltiva la sua passione, che
esprime la sua creatività nella materia, il legno. Piango per la poesia di una
falegnamessa (ecco, manco le parole abbiamo) artistica e delle sue creature. Piango
per tutta la creatività che ho soffocato nella mia vita, per sopravvivere in un mondo
poco creativo. Piango di gratitudine per come quel mondo grigio stia sparendo.
Perché si, se non ve ne siete accorti ancora, sta sparendo! Un esercito di Lorenze
diventa ogni giorno sempre più consapevole. Senza proclami, nel silenzio e nella
semplicità.
Odore di Legno è il nome che ha scelto di dare Lorenza alla sua piccola/grande
passione. Se dovete fare un regalo, a voi o a chi amate, date un’occhiata alla sua
Elena Basta
L’avvento della grande produzione industriale mise KO e fece sparire il piccolo artigiano ed il poicolo agricoltore locale.
Producendo in serie le derrate si potevani ridurre fortemente i costi unitari, ed in quel prezzo ridotto farci stare anche la pubblicità e il trasporto da una luogo lontano, ma con alcuni inconvenienti I prodotti non avevano quella qualità che solo le mani dell’artigiano e del contadino potevano conferire. E fatto ancor più importante la perdita del lavoro e l’impoverimento generale e la perdita di potere d’acquisto della popolazione, oltre alla perdita di umanità denunciata nell’articolo.
Analoghi risultati si verificarono con la grande produzione agricola industriale. Si produssero per esempio i pomodori geneticamente modificati in spregio alle leggi della natura, pomodori che non hanno più alcun sapore. Così, per ridurre i prezzi si impoverirono i terreni coltivabili usando i fertilizzanti chimici (più utili per fabbricare esplosivi), mentre qualunque agricoltore sapeva che per mantenere fertile il terreno era necessario usare lo sterco animale.