Breve considerazione leggera, tanto per stimolare le chiacchere da ombrellone, mica temi profondi od esistenziali: così, tanto per provocare la discussione.
Lo spunto me lo dà un medico, mio “amico” su Facebook (diremmo meglio: contatto); personaggio abbastanza fuori dalle righe, forse anche perchè in età pensionabile (e quindi non più ricattabile), sono note le sue provocazioni nei confronti della sanità, dell’ordine dei medici, di big pharma, ecc. Pare sia stato anche ripreso ufficialmente dall’ordine dei medici (una sorta di “ammonizione” o cartellino giallo, prima del cartellino rosso dell’espulsione).
Da qualche mese pubblica sul suo profilo il suo stipendio: come si vede nella figura, per circa 1.500 assistiti, sono 13.700 € lordi per un netto di 9.400. Non so quanti di voi siano abituati a queste cifre, io sicuramente no, e sicuramente nessuno, nel mio giro di amici e conoscenti.
Parlando di lavoro dipendente, il principio che regola quello che uno guadagna, nel mondo del privato, è frutto di una trattativa personale col datore di lavoro: a seconda di quello che sai fare, e di quanto questo può valere per me, ti propongo uno stipendio. Niente da ridire, infatti, se Ronaldo, o qualunque altro sportivo, guadagna svariate decine di miloni di €uro all’anno: è frutto di una trattativa fra soggetti privati che avranno fatto bene i loro conti ed hanno trovato un punto di incontro, una cifra ritenuta ottimale da entrambi.
Ma nel caso del pubblico, le cose come funzionano? Esistono, immagino, dei contratti di categoria che stabiliscono le regole. E questi contratti di categoria riflettono quello che è il valore ritenuto congruo per la prestazione d’opera portata, no?
Ora, ad esempio, se confrontiamo lo stipendio di un insegnante (sotto i 2.000€) con quello di un medico di base, appare evidente che, per lo stato (che è il datore di lavoro di entrambi), il medico vale quasi 4 volte l’insegnante. Come anche vale 4 o 5 volte un vigile urbano, o un impegato comunale.
Giusto? Sbagliato? Non lo so. Ma provo a dare un’interpretazione diversa. Che, manco a dirlo, sarà da complottisti.
Proviamo a ragionare non tanto in termini di utile che un tal lavoratore porta, ma in termnini di danno potenziale se quel tale lavoratore, o quella tale categoria, non fosse ligia alle linee guida ed alle direttive imposte. Appare evidente come, per cautelarmi da tale danno, debba rendere molto costosa, in termini ovviamente di perdita di benefici, il dissenso rispetto alle linee guida.
Ad esempio, esistono molti studiosi, naturopati, praticanti medicina olistica che “fanno la fame” o giù di lì: sono fuori dal circuito ufficiale, non hanno le garanzie di vedere il loro lavoro e la loro preparazione riconosciuti, e sono molto più esposti della classe medica a fronte di esiti negativi dei loro pazienti. Soprattutto, non hanno nessuna corporazione a difenderli.
La classe medica invece ha queste difese. Ma a quale prezzo? Al prezzo del rischio di espulsione, di radiazione dall’ordine, e di perdita dei benefici acquisiti se provano a discostarsi dalle linee guida imposte dall’alto (guarda caso, sempre più imposte da chi i soldi ce li ha, proprio le compagnie farmaceutiche). Se il divario fra la professione “ufficiale”, “allineata”, fosse nullo o quasi, molti, che si stanno accorgendo di praticare una medicna che non guarisce, ma prevalentemente tacita i sintomi, sarebbero più facilmente tentati verso qualcosa di nuovo e più stimolante. Forse (dico forse, si sa, sono complottista) tenere alto il divario, creare un grosso svantaggio per i non allineati è un modo per impedire lo sviluppo di forme alternative.
A ben pensarci, il denaro conta molto. Quanti parlamentari eletti abbiamo visto promettere mari e monti, in campagna elettorale, per poi vederli spegnersi, allineati alle posizioni di regime una volta insediati sulla comoda poltrona da 20.000€ al mese ed una pensione garantita?
Decisamente la rivoluzione la fa solo chi non ha nulla da perdere, o ha capito la portata rivoluzionaria della parola “gratis“.
Tutti gli altri hanno un prezzo, e per chi il denaro lo produce dal nulla, nessun prezzo è troppo alto.
Siddharta si recò dal mercante Kamaswami in cerca di lavoro. Fra preziosi tappeti, i servi lo condussero in una camera, dove rimase in attesa.
Entrò Kamaswami, un uomo dai capelli grigi, occhi accorti e guardinghi. L’ospite e il padron di casa si salutarono cortesemente.
“Mi è stato detto che sei un Brahmino molto istruito, ma che cerchi un impiego presso un mercante. Sei caduto in miseria, Brahmino, per cercare impiego?”
“No,“ disse Siddharta “non sono caduto in miseria e non sono mai stato in miseria. Sappi che vengo dai Samana, presso i quali sono vissuto per molto tempo.”
“Se vieni dai Samana come fai a non essere in miseria? Non vivono i Samana in assoluta povertà?”
“Povero lo sono,” disse Siddharta “non possiedo niente, se è questo che intendi. Ma lo sono volontariamente, quindi non sono in miseria.”
“E di che vuoi vivere se non possiedi nulla?”
“Non ci ho mai pensato, signore. Per più di tre anni sono vissuto nella più assoluta povertà, e non ho mai pensato di che potessi vivere.”
“Allora sei vissuto dei beni di altri.”
“Probabilmente è così. Anche il mercante vive dei beni di altri.”
“Ben detto, ma egli non prende le cose agli altri per nulla: agli dà in cambio la propria merce.”
“Così pare che stiano le cose. Ognuno prende, ognuno dà. Così è la vita.”
“E tu, se non possiedi nulla, cosa vuoi dare?”
“Ognuno dà di quello che ha. Il guerriero la forza, il mercante la merce, il saggio la saggezza, il contadino il riso, il pescatore i pesci.”
“Benissimo. E che cos’è che tu hai da dare? Che cosa hai appreso, che sai fare?”
“Io so pensare. So aspettare. So digiunare.”
“E questo è tutto?”
“Credo sia tutto.”
“E a che serve? Per esempio il digiunare, a che serve?”
“Quando un uomo non ha niente da mangiare, digiunare è la più bella cosa. Se Siddharta non avesse imparato a digiunare, oggi stesso dovrebbe assumere qualche impiego, da te o in un altro posto, perché la fame ve lo costringerebbe. Ma Siddharta può aspettare tranquillo, non conosce impazienza, non conosce miseria, può lasciarsi a lungo assediare dalla fame e ridersene. A questo, signore, serve il digiuno.”
“Hai ragione, Samana. Ora attendi un momento.”
Kamaswami uscì e ritornò con un rotolo. Lo porse al suo ospite, chiedendo: “Sai leggere questo?”.
Siddharta esaminò il rotolo, su cui era redatto un contratto, e cominciò a leggere.
“Benissimo” disse Kamaswami. “Vuoi scrivere qualcosa?”. Siddharta scrisse e restituì il foglio.
“Scrivere è bene, pensare è meglio. L’intelligenza è bene, la pazienza è meglio.”
“Scrivi magnificamente” lodò il mercante. “Di molte cose avremo ancora da discorrere. Per oggi, ti prego, sii mio ospite e prendi dimora in questa casa”.
Vero… dobbiamo proprio abbandonare i concetti comuni di povertà e ricchezza!