Lo scontro di questi giorni fra tassisti e Uber, la app che consente di utilizzare servizi di trasporto di privati a fronte di pagamenti di somme di denaro, è molto di più di una delle tante battaglie corporativistiche che siamo abituati a vedere in Italia, da un po’ di tempo. Le corporazioni, o gruppi di interesse, lottano per difendere i propri interessi messi in pericolo di solito dall’avvento di qualche nuovo “attore” che va a “mangiare” nel loro piatto.

  • Così i notai, forti di un potere che deriva dai periodi in cui la gente media non sapeva leggere nè scrivere (Renzo e i suoi capponi ricorda qualcosa?), si oppongono alle aperture che, raramente, si affacciano all’orizzonte, vuoi per i trasferimenti di proprietà degli autoveicoli (delega ai comuni?), vuoi per la chiusura di cooperative, srl o per altri atti pubblici.
  • I medici, con la loro fortissima federazione, cercano di bollare come “non-scientifico“, “ciarlataneria” tutto ciò che non rientra nei protocolli standard (a cui loro stessi devono adeguarsi, pena la disgregazione di una diga monolitica, impermeabile alle innovazioni ed alle voci fuori dal coro).
  • I giornalisti cercano di bollare come fake news tutto ciò che non è detto tramite loro, e gongolano che si stia per approvare una legge che penalizza il web ma non la carta stampata;
  • i dentisti cercano di mantenere le loro alte tariffe irridendo chi (almeno dalle nosre parti) ne approfitta per andare in Croazia, e, alla metà del prezzo che pagherebbe in Italia, si paga anche il ponte in spiaggia (oltre che quello in bocca).

Il nuovo che avanza trova ragione d’essere in nuove normative a volte, in nuovi concorrenti, in nuovi modi di fare le stesse cose in altre.

Nel caso di Uber la rivoluzione è derivante da una innovazione tecnologica e, in quanto tale, mi sembra impossibile da fermare. Da una parte abbiamo un gruppo di lavoratori che, secondo le regole vigenti, hanno dovuto pagare somme enormi per poter fare il loro – spesso pesante – mestiere. E che magari confidavano nella rivendita della licenza come forma assicurativa o buonauscita pensionistica al termine di tanti anni di lavoro. Dall’altra parte la tecnologia permette, con un servizio addirittura migliore e meno caro allo stesso tempo, di fare la stessa cosa senza alcun investimento iniziale (se non la macchina) e soprattutto senza dover pagare dazio ad uno stato avido, inefficiente e – per molti versi come in questo caso – inutile.

Lo scontro è fra uno stato centrale, che definisce le regole e stabilisce i limiti, vende le licenze e lucra con le tasse, in una parola: controlla i propri sudditi, ed una forma di liberalismo ai limiti dell’anarchia ma, tutto sommato, molto più democratica ed efficiente e al passo coi tempi.

Come finirà? Faccio la mia previsione: lo stato deve a tutti i costi difendere i tassisti. Deve perchè ne va della sua credibilità: se oggi abbandono loro, altri comincerebbero a domandarsi: ma perchè dobbiamo essere ubbidienti, aderire alle regole, pagare tutto quello che c’è da pagare, per ritrovarci con un pugno di mosche in mano?

Ma è una battaglia di retroguardia, e in quanto tale destinata alla sconfitta. Come è una battaglia di retroguardia quella che cerca di screditare chi scrive informazioni e mette commenti su internet. Se è bravo, e se scrive bene, la gente andrà a leggerlo, checchè ne dica la stampa ufficiale. Così come è una battaglia di retroguardia quella che vuole imporre cure mediche dirette a tacitare il sintomo, senza analizzare le cause vere e profonde delle malattie, a fronte delle nuove scoperte della medicina.

A colpi di leggi e multe la burocrazia difende sè stessa. Ma la sua credibilità è ormai irrimediabilmente minata, e chi può ne farà a meno, in ogni situazione dove questo sia possibile. Con buona pace di chi, come i tassisti che hanno tutta la mia solidarietà, lotta per una posizione ormai indfendibile.