Pubblico il manifesto del movimento per l’abrogazione della legge che consente l’eliminazione di circa 100.000 bambini non nati ogni anno (solo in Italia).

 

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IL MANIFESTO DEL COMITATO

Dal 1978, primo anno di applicazione della legge 194, al 2007, sono stati effettuati in Italia 4.864.783 aborti ( dati del Ministero della Salute).

Nelle democrazie “progressiste”, il posto meno sicuro per un essere umano è il grembo della propria madre.

Oggi le prime vittime della 194 sarebbero trentenni.

Un’intera generazione di italiani è stata cancellata.

Fino alla metà del secolo scorso, in Italia e nel mondo la donna era educata a dare la vita, non la morte. L’uccisione del figlio nel grembo materno non era considerata un “diritto”. Da alcuni decenni a questa parte però, le lobbies abortiste, in Italia e nel mondo, hanno educato l’opinione pubblica a credere che l’interruzione volontaria della gravidanza non rappresenti un omicidio ma un atto moralmente neutro. Secondo l’idea corrente, radicata nella coscienza collettiva da una tenace quanto calcolata manipolazione mediatica, l’aborto procurato (i tempi della gravidanza entro i quali è lecito effettuare aborti ordinari e tardivi, variano nelle legislazioni abortiste secondo il grado di potere esercitato dai “progressisti” nei singoli paesi) non rappresenta l’uccisione di un individuo veramente umano, ma l’interruzione di un processo biologico, l’eliminazione di un impersonale abbozzo di vita. Eppure la donna annuncia la maternità dichiarando “attendo un figlio” – non saprebbe quali altre parole utilizzare – e un figlio è “persona”, uno di noi. Dunque?

Per superare l’ostacolo della realtà, gli abortisti si affidano da sempre alla suggestione, ad una terminologia fuorviante che oscuri la sacralità della vita nascente e dunque cancelli l’idea che l’aborto sia ciò che è: l’omicidio di un essere umano innocente ed inerme che, se potesse parlare, chiederebbe di vivere. Così gli abortisti hanno eliminato dal vocabolario delle comunicazioni sociali le parole “figlio” e “bambino”, sostituite da “prodotto del concepimento”,“materiale fetale”, fino ad “ ammasso informe di cellule”, definizione, quest’ultima, usata dai radicali nella relazione introduttiva alla proposta di legge sull’aborto del 5 luglio 1976. Nella stessa logica, la parola “aborto” è stata sostituita da “interruzione volontaria della gravidanza”, espressione più elegante. La manipolazione del linguaggio (e dunque delle coscienze) è attualmente completata dalla sigla IGV (interruzione volontaria della gravidanza), pensata, par di capire, per abbreviare al massimo i tempi di riflessione sulla realtà dell’aborto.

La “Legge” 194

L’art. 1 della Legge 194 recita:
”Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”.

Par di capire che la procreazione “cosciente e responsabile”, secondo il legislatore, consista nell’eliminazione fisica della prole e che lo Stato riconosca il “valore sociale della maternità” promuovendo l’aborto (una legge educa la collettività ad esercitare il diritto sancito dalla legge stessa: in specie, la libertà di aborto). Par di capire altresì che l’uccisione del figlio nel grembo materno possa essere diversamente definito “tutela della vita umana dal suo inizio”. In questo scenario surreale non manca neppure la conclamata garanzia, da parte dello Stato, di considerare l’aborto non alla stregua di un contraccettivo, e cioè mezzo per il controllo delle nascite al pari della pillola o del profilattico.

A questo riguardo varrà la pena di rileggere l’art.4 che stabilisce come “l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni” possa aver luogo ogni qual volta: ” la donna accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento “Condizioni economiche, sociali o familiari” (…) “ circostanze in cui è avvenuto il concepimento”. Ma questo spettro di opzioni, in pratica, abbraccia la vita nella sua globalità.

Dunque, di fatto, la legge 194 dà facoltà alla donna di abortire sempre, comunque, e per qualunque motivo. In tal modo l’incondizionata libertà di aborto si traduce- e questo il legislatore “progressista” lo sapeva benissimo – nell’uso delle pratiche abortive come contraccettivo, come mezzo per il controllo della nascite. La libertà di aborto, per la donna, è incondizionata poiché nessuno, al di fuori della donna – né il padre del bambino, né il medico, né il magistrato né l’assistente sociale – hanno potere decisionale né potere di veto in ordine alla decisione di procedere all’aborto procurato. Dietro una forma educata e politicamente corretta, la sostanza della “legge” 194 è dunque l’idea che l’aborto sia e debba essere di fatto un contraccettivo, di cui la donna abbia facoltà di far uso sulla sola base della sua insindacabile decisione.

L’ideologia abortista

Fondamento della libertà di aborto è il cosiddetto “diritto di autodeterminazione della donna”. Così formulato, e applicato all’aborto, il principio appare completamente privo di senso logico e morale, posto che la nozione di “diritto” rimanda al conseguimento di un bene e all’affermazione della giustizia. Il Diritto, confortato dal senso comune e dall’etica naturale, distingue tra l’autodeterminazione legittima, espressione del libero sviluppo della personalità, e l’autodeterminazione illecita, espressione di un egoismo criminogeno che calpesta i diritti altrui arrecando danno al singolo o alla collettività. Spieghi allora il legislatore, perché la legge 194 non lo spiega, a quali condizioni l’aborto possa essere considerato autodeterminazione lecita, quando esso arreca ad un essere umano il massimo grado del danno: la soppressione della sua vita. Spieghi il legislatore a quali condizioni la 194 possa essere considerata “legge” quando la legge è per definizione una norma orientata al bene comune. Negare il diritto di vivere ad un innocente è un bene?

E’da considerarsi “bene comune” l’uccisione di membri della comunità (perché tali sono, i bambini nel grembo materno) per motivi futili e abietti? L’indagine sociale parla chiaro in proposito: non vi è traccia di “motivi gravi” alle radici dell’aborto di massa ( che del resto non giustificherebbero comunque l’omicidio): ai quattro angoli del mondo, la decisione di uccidere il proprio figlio con un aborto procurato risponde al solo principio di autodeterminazione. Coerentemente con quest’ordine di idee, di recente una giovane donna ha potuto abortire, a norma di legge,per non negare a sé stessa la partecipazione ad un reality show. Con il suo corredo ideologico di “onnipotenza”, la libertà di aborto ha scavato nel sistema del Diritto una sacca di impunità nella quale il Diritto stesso, semplicemente, scompare. Esso riappare però ogni qual volta il principio di autodeterminazione non si applica all’interruzione volontaria della gravidanza. Allora la donna è chiamata a riconoscere la sacralità della vita umana, pena la galera, in ossequio alla Legge che, compiuto il salto mortale della 194, torna a non ammettere disinvolte “autodeterminazioni”, meno che mai omicide: i procedimenti giudiziari a carico di assassini non terminano con la formula: “L’imputato non è punibile in quanto ha ucciso per autodeterminarsi”

Il quinto comandamento ( non ammazzare), principio radicato per legge di natura nella coscienza collettiva dei popoli, è stato cancellato dalle leggi abortiste. L’amore materno, l’umana pietà, la logica e la decenza, sono stati calpestati dal sistema dell’aborto, secrezione di un’ideologia di stampo ateo-illuminista che riduce la maternità ad un processo biologico da gestire secondo criteri di funzionalità affettiva. Nell’ottica abortista, se una nuova vita è attesa e desiderata, il figlio nel grembo materno è considerato qualcuno, membro dell’umana famiglia e dunque titolare di diritti, primo fra tutti il diritto di vivere. Diversamente, se il nascituro rappresenta “un problema”, misteriosamente egli perde la sua umanità e si trasforma in qualcosa, un prodotto biologico eliminabile a norma di legge. Tutto questo è stato consacrato in “legge”.

Per questo noi non vogliamo modificare la legge 194, meno che mai migliorarla, poiché non vediamo a quali condizioni l’uccisione di un bambino sia suscettibile di“miglioramenti”.

La 194 deve essere soltanto abrogata.

L’abrogazione non restituirebbe la vita ai milioni di esseri umani macellati nel corso del trentennio abortista ( se l’espressione appare “suggestiva”, ci si informi sulle procedure degli aborti chirurgici, ordinari e tardivi) ma restituirebbe al popolo italiano dignità e vita.

“Il delitto è un padrone, rigido ed inflessibile, contro di cui divien forte se non chi se ne ribella interamente” (A. Manzoni)